Ricorso   proposto   dalla   Regione   Veneto   (codice   fiscale
80007580279 -  Partita  I.V.A.  n.  02392630279),  in   persona   del
Presidente della Giunta Regionale dott.  Luca  Zaia  (codice  fiscale
ZAILCU68C27C957O),  autorizzato  con   deliberazione   della   Giunta
regionale  n.  1706  del  23  settembre   2014   (allegato   n.   1),
rappresentato e difeso, per mandato  a  margine  del  presente  atto,
tanto unitamente  quanto  disgiuntamente,  dagli  avv.ti  Ezio  Zanon
(codice  fiscale   ZNNZEI57L07B563K)   coordinatore   dell'Avvocatura
regionale, e Luigi Manzi (codice fiscale MNZLGU34E15H501V)  del  Foro
di Roma, con domicilio eletto presso lo  studio  di  quest'ultimo  in
Roma, via  Confalonieri,  n.  5  (per  eventuali  Comunicazioni:  fax
06/3211370,          posta          elettronica           certificata
luigimanzi@ordineavvocatiroma.org 
    Contro il Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  pro-tempore,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello  Stato,  presso
la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi,  n.  12,
per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale, dell'art.  52,
commi 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004,  n.  42,  cosi'
come modificato e integrato dall'art. 4,  comma  1,  D.L.  31  maggio
2014, n. 83, convertito, con modificazioni,  dalla  legge  29  luglio
2014, n. 106, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 luglio 2014,
n. 175. 
 
                                Fatto 
 
    Il decreto legge 8  agosto  2013  n.  91,  recante  «Disposizioni
urgenti per la tutela, la valorizzazione e il  rilancio  dei  beni  e
delle attivita' culturali e del turismo» ha  introdotto  nel  decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, l'art. 52, comma  1-bis.  Questo,
nel testo modificato dalla legge di conversione 7  ottobre  2013,  n.
112, (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 8 ottobre  2013,  n.  236),
statuiva  che  «Al  fine  di  contrastare  l'esercizio,  nelle   aree
pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico,  artistico
e paesaggistico, di attivita'  commerciali  e  artigianali  in  forma
ambulante o su posteggio, nonche' di qualsiasi  altra  attivita'  non
compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio  culturale,  con
particolare riferimento alla necessita' di assicurare il  decoro  dei
complessi monumentali e degli altri immobili  del  demanio  culturale
interessati da flussi turistici  particolarmente  rilevanti,  nonche'
delle aree a essi contermini,  le  Direzioni  regionali  per  i  beni
culturali e paesaggistici  e  le  soprintendenze,  sentiti  gli  enti
locali, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli  usi  da
ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di  tutela  e  di
valorizzazione, comprese le forme di  uso  pubblico  non  soggette  a
concessione di uso individuale, quali le  attivita'  ambulanti  senza
posteggio,  nonche',  ove  se  ne  riscontri  la  necessita',   l'uso
individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio  di
concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico.» 
    Tale disposizione e' stata impugnata dalla  Regione  del  Veneto,
giusta DGR n. 2183 del 3 dicembre 2013, in  quanto  ritenuta  violare
gli artt. 3, 97, 117, 118 e 120 della Costituzione  della  Repubblica
italiana. 
    Il giudizio avanti la Consulta, iscritto con il numero  101/2013,
e' stato rinviato a nuovo ruolo a seguito delle intervenute modifiche
e integrazioni apportate alla norma impugnata dall'art. 4,  comma  1,
D.L. 31 maggio 2014, n. 83. 
    Tale ultima disposizione e'  stata  ulteriormente  modificata  in
sede di conversione dalla legge 29 luglio 2014, n.  106.  L'art.  52,
comma 1-ter (cosi' rinumerato), del decreto  legislativo  22  gennaio
2004, n. 42, nella versione novellata, statuisce ora che: «Al fine di
assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili
del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente
rilevanti, nonche' delle aree a essi contermini, i competenti  uffici
territoriali del Ministero, d'intesa con i Comuni, adottano  apposite
determinazioni volte a vietare gli usi da  ritenere  non  compatibili
con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le
forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso  individuale,
quali le attivita' ambulanti senza  posteggio,  nonche',  ove  se  ne
riscontri la necessita', l'uso individuale delle  aree  pubbliche  di
pregio a seguito del  rilascio  di  concessioni  di  posteggio  o  di
occupazione di suolo pubblico. In particolare,  i  competenti  uffici
territoriali del Ministero e i Comuni avviano, d'intesa, procedimenti
di riesame, ai sensi dell'articolo 21-quinquies della legge 7  agosto
1990, n. 241, delle  autorizzazioni  e  delle  concessioni  di  suolo
pubblico, anche a rotazione, che risultino non piu'  compatibili  con
le esigenze di cui al presente comma, anche  in  deroga  a  eventuali
disposizioni regionali adottate in base all'articolo 28, commi 12, 13
e 14, del decreto legislativo 31 marzo 1998,  n.  114,  e  successive
modificazioni, nonche' in deroga ai criteri  per  il  rilascio  e  il
rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio del  commercio
su  aree  pubbliche  e  alle   disposizioni   transitorie   stabilite
nell'intesa in sede di Conferenza unificata, ai  sensi  dell'articolo
8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall'articolo
70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo  2010,  n.  59  recante
attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo  e  del
Consiglio del 12  dicembre  2006  relativa  ai  servizi  nel  mercato
interno. In caso di revoca del titolo, ove non risulti  possibile  il
trasferimento  dell'attivita'   commerciale   in   una   collocazione
alternativa potenzialmente equivalente, al titolare e' corrisposto da
parte   dell'amministrazione   procedente   l'indennizzo    di    cui
all'articolo 21-quinquies, comma 1,  terzo  periodo,  della  legge  7
agosto 1990, n. 241, nel limite massimo della media dei ricavi  annui
dichiarati negli ultimi cinque anni di attivita', aumentabile del  50
per cento in caso di comprovati investimenti effettuati nello  stesso
periodo per adeguarsi alle  nuove  prescrizioni  in  materia  emanate
dagli enti locali.» 
    Con la novella la norma gia' oggetto  di  precedente  impugnativa
avanti codesta Corte, oltre a essere stata rinumerata,  onde  evitare
l'esistenza di due commi 1-bis, ha  visto  l'abrogazione  dell'inciso
iniziale, ove si giustificava la potesta'  attribuita  ai  competenti
uffici territoriali  del  Ministero,  dove  si  dichiarava  che  essa
perseguiva il «fine di contrastare l'esercizio, nelle aree  pubbliche
aventi  particolare  valore  archeologico,   storico,   artistico   e
paesaggistico,  di  attivita'  commerciali  e  artigianali  in  forma
ambulante o su posteggio, nonche' di qualsiasi  altra  attivita'  non
compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale». 
    Malgrado le modificazioni la nuova formulazione non ha  in  alcun
modo eliso l'illegittimita' sostanziale  della  previsione  di  legge
dello Stato, che si pone comunque,  anche  nel  testo  novellato,  in
contrasto con la  competenza  legislativa  regionale  in  materia  di
valorizzazione dei beni culturali, riconosciuta dall'art. 117 comma 3
della Costituzione, nonche' risulta lesiva della potesta' legislativa
esclusiva delle Regioni in materia di  turismo  e  di  esercizio  del
commercio ex art. 117, comma 4 della Costituzione. 
    Risultano   inoltre   ancora   lesi   la   correlata   competenza
amministrativa riconosciuta alle Regioni a norma dell'art. 118  Cost.
nonche' il principio di leale collaborazione ex art. 120 Cost. 
    Nell'alveo di tale disposizione, gia' impugnata nel giudizio R.G.
101/2013, si pone anche comma 1-ter, parte conclusiva, dell'art.  52,
del decreto legislativo 22 gennaio 2004,  n.  42,  inserito  ex  novo
dall'art. 4, comma 1, D.L. 31 maggio 2014, n.  83,  come  convertito,
con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014. 
    Esso appare infatti in contrasto con gli artt. 3, 97, 117,  commi
1, 3 e 4, 118 e 120 della Costituzione della Repubblica italiana. 
    Prima di illustrare i motivi di illegittimita' costituzionale  di
questa  ultima  versione  dell'art.  52,  comma  1-ter  del   decreto
legislativo 22  gennaio  2004,  n.  42,  ripercorre  puntualmente  le
ragioni  di  illegittimita'  costituzionale  gia'  fatte  valere  nel
precedente giudizio di legittimita' costituzionale, stante la stretta
correlazione tra il presente giudizio di legittimita'  costituzionale
e quello in precedenza sollevato. Sia a ricognizione di quanto svolto
nel precedente ricorso, sia ai fini della eventuale riunione  con  il
presente. 
«Violazione degli articoli 117 commi  terzo  e  quarto  e  118  della
Costituzione 
    La  difesa   regionale   contesta   radicalmente   le   finalita'
apoditticamente enunciate dal  legislatore  statale  nel  testo,  nel
tentativo, a dire il vero velleitario, di  ricondurre  le  previsioni
dell'articolo   impugnato   nell'alveo   dell'articolo   117    della
Costituzione,  quale  legittima   espressione   di   una   competenza
legislativa esclusiva statale. 
    Innanzitutto,  nell'incipit  della   disposizione   medesima   e'
enunciato  il  proposito  di  "contrastare  l'esercizio  (...)  delle
attivita'  commerciali  e  artigianali  in  forma  ambulante   o   su
posteggio, nonche' di qualsiasi altra attivita' non compatibile" allo
scopo dichiarato di "assicurare il decoro dei complessi monumentali e
degli altri immobili del demanio culturale (...) nonche' delle aree a
essi contermini". 
    Orbene tale  finalita',  piu'  che  ad  esigenze  di  tutela  del
patrimonio  culturale  riservata  allo  Stato  dall'art.  117,  comma
secondo, lett. s), della  Costituzione,  pare  piuttosto  ascrivibile
alla c.d. "valorizzazione dei beni culturali" di cui al  comma  terzo
della Costituzione, e l'assunto trova, oltretutto, puntuale  conferma
proprio nel  testo  della  disposizione  in  esame  che  le  menziona
espressamente. 
    In  realta',  ad   avviso   dello   scrivente   patrocinio,   per
circoscrivere correlativamente l'ambito materiale di cui  si  tratta,
enucleandolo in ragione della competenza funzionale  esercitabile  in
relazione  all'amplissima   categoria   costituita   dal   patrimonio
culturale, appare utile richiamare la sentenza n. 212 del 2006, nella
quale  codesta  Ecc.ma  Corte  ha  chiaramente  delineato  l'elemento
qualificante il profilo  sussumibile  nel  termine  "valorizzazione",
argomentando nel contesto dei beni ambientali.  Nello  specifico,  e'
stata individuata la competenza  regionale,  ai  sensi  dell'articolo
117, comma terzo della Costituzione in  tema  di  valorizzazione  del
patrimonio  tartuficolo,  quale  risorsa  ambientale  della   Regione
suscettibile di razionale sfruttamento. 
    Conseguentemente, senza alcun diaframma logico od ermeneutico, se
si considera che il precetto costituzionale di cui all'articolo  117,
comma terzo, della Costituzione  pone  la  "valorizzazione  dei  beni
ambientale in endiadi con  la  "valorizzazione  dei  beni  culturale,
appare ragionevole supporre che rappresenti  un  criterio  distintivo
certo, ai fini della demarcazione della  competenza  in  materia,  la
suscettibilita' del patrimonio culturale  ad  essere  oggetto  di  un
razionale  sfruttamento,  anche   attuato   mediante   le   attivita'
turistiche, commerciali ed artigianali contigue a tale patrimonio  ed
indotte dall'afflusso turistico che in  tali  aree  risulta  alquanto
consistente, il che vale  a  dire  che  il  patrimonio  culturale  e'
indubitabilmente una  risorsa  la  cui  valorizzazione  compete  alla
Regione. 
    Sul punto, peraltro, gia' nella sentenza n. 9 del  2004,  codesto
Ecc.mo Collegio  non  aveva  mancato  di  individuare  le  direttrici
normative della materia de qua anche per quanto attiene  le  funzioni
amministrative correlate, particolarmente laddove affermava che:  "Il
quadro complessivo della disciplina dei beni culturali va ricostruito
sulla base di molteplici  dati  normativi,  eterogenei  per  il  loro
contesto specifico e  per  il  rango  della  fonte.  In  particolare,
benche' il decreto legislativo 31  marzo  1998,  n.  112,  sia  stato
emanato in un momento  antecedente  la  riforma  di  cui  alla  legge
costituzionale n. 3 del 2001, questa Corte ha gia'  riconosciuto  (v.
sentenza n. 94 del 2003) che utili elementi per  la  distinzione  tra
tutela e valorizzazione dei beni  culturali  possono  essere  desunti
dagli artt. 148, 149, 150 e 152 di tale decreto. 
    L'art. 148 stabilisce che ai fini del  decreto  stesso  s'intende
per tutela  «ogni  attivita'  diretta  a  riconoscere,  conservare  e
proteggere  i  beni  culturali  e  ambientali»;  per  gestione  «ogni
attivita' diretta,  mediante  l'organizzazione  di  risorse  umane  e
materiali,  ad  assicurare  la  fruizione  dei   beni   culturali   e
ambientali, concorrendo al perseguimento delle finalita' di tutela  e
valorizzazione»;  per  valorizzazione  «ogni  attivita'   diretta   a
migliorare le condizioni  di  conoscenza  e  conservazione  dei  beni
culturali e ambientali e ad incrementarne la fruizione». 
    L'art. 149, comma 1, prescrive che «ai sensi dell'art 1, comma 3,
lettera d), della legge 15 marzo 1997, n.  59,  sono  riservate  allo
Stato le funzioni e i compiti di tutela dei  beni  culturali  la  cui
disciplina generale e' contenuta nella legge 1° giugno 1939, n. 1089,
e nel decreto del Presidente della Repubblica 30 settembre  1963,  n.
1409, e loro successive modifiche e integrazioni». 
    L'art. 150 disciplina il trasferimento della gestione  di  alcuni
beni, secondo il principio  di  sussidiarieta',  alle  regioni,  alle
province o ai comuni. 
    L'art. 152 prevede al comma 1 che lo Stato, le regioni e gli enti
locali curino, ciascuno nel proprio  ambito,  la  valorizzazione  dei
beni culturali e che, ai sensi dell'art.  3,  comma  1,  lettera  c),
della legge n. 59 del 1997, la valorizzazione venga di norma  attuata
mediante forme di cooperazione strutturali e  funzionali  tra  Stato,
regioni ed enti locali, secondo quanto previsto dagli articoli 154  e
155 dello stesso decreto legislativo. 
    Il comma 3 dell'art. 152 stabilisce che le funzioni e  i  compiti
di  valorizzazione  comprendono,   in   particolare,   le   attivita'
concernenti: «a) il miglioramento della conservazione fisica dei beni
e della loro sicurezza, integrita'  e  valore;  b)  il  miglioramento
dell'accesso ai beni e la  diffusione  della  loro  conoscenza  anche
mediante  riproduzioni,  pubblicazioni  ed  ogni   altro   mezzo   di
comunicazione; c) la fruizione agevolata  dei  beni  da  parte  delle
categorie meno favorite; d) l'organizzazione di  studi,  ricerche  ed
iniziative scientifiche anche in collaborazione  con  universita'  ed
istituzioni culturali e di ricerca; e) l'organizzazione di  attivita'
didattiche e divulgative anche  in  collaborazione  con  istituti  di
istruzione; f) l'organizzazione di mostre anche in collaborazione con
altri soggetti pubblici e  privati;  g)  l'organizzazione  di  eventi
culturali connessi a particolari aspetti dei beni o ad operazioni  di
recupero,  restauro  o  ad  acquisizione;  h)   l'organizzazione   di
itinerari culturali, individuati mediante  la  connessione  fra  beni
culturali e ambientali diversi, anche in collaborazione con gli  enti
e  organi  competenti  per  il  turismo».  A  sua  volta  il  decreto
legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 (Istituzione del Ministero per  i
beni e le attivita' culturali), all'art. 10, comma 1, lettera  b-bis)
- disposizione aggiunta con l'art. 33 della legge 28  dicembre  2001,
n. 448, successivamente quindi  all'entrata  in  vigore  della  legge
costituzionale n. 3 del 2001, e poi modificata dal comma 52 dell'art.
80 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 e dall'art. 6 della legge  16
gennaio 2003, n. 3  -  nel  prevedere  la  possibilita'  di  dare  in
concessione a soggetti diversi  da  quelli  statali  la  gestione  di
servizi relativi ai beni culturali di interesse  nazionale,  tramite,
l'emanazione di  un  regolamento  che  disciplini  tali  concessioni,
indica tra  i  criteri  e  le  garanzie  cui  il  regolamento  dovra'
uniformarsi la salvezza della riserva statale sulla tutela dei beni. 
I dati normativi riferiti permettono di affermare quanto segue 
    La tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative
sono state considerate attivita' strettamente connesse ed a volte, ad
una lettura non approfondita,  sovrapponibili.  Cosi  l'art  148  del
decreto legislativo n. 112 del 1998 annovera, come s'e' visto, tra le
attivita' costituenti tutela quella  diretta  «a  conservare  i  beni
culturali  e  ambientali»,  mentre  include  tra  quelle  in  cui  si
sostanzia  la  valorizzazione  quella  diretta   a   «migliorare   le
condizioni di conservazione dei  beni  culturali  e  ambientali».  La
gestione, poi, nella definizione che ne da' il medesimo articolo,  e'
funzionale sia alla tutela sia  alla  valorizzazione.  Il  menzionato
art. 152 dello stesso decreto legislativo considera la valorizzazione
come compito che Stato,  regioni  ed  enti  locali  avrebbero  dovuto
curare ciascuno nel proprio  ambito.  Tuttavia  le  espressioni  che,
isolatamente considerate, non denotano nette differenze tra tutela  e
valorizzazione, riportate nei loro contesti normativi dimostrano  che
la prima e' diretta principalmente ad  impedire  che  il  bene  possa
degradarsi nella sua struttura fisica  e  quindi  nel  suo  contenuto
culturale; ed e' significativo che  la  prima  attivita'  in  cui  si
sostanzia la tutela e' quella del riconoscere il bene culturale  come
tale. La valorizzazione e' diretta  soprattutto  alla  fruizione  del
bene  culturale.  Sicche'  anche  il  miglioramento  dello  stato  di
conservazione attiene a quest'ultima nei luoghi  in  cui  avviene  la
fruizione ed ai modi di questa. 
    Occorre infine rilevare che in nessun atto  normativo  precedente
la modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione, la tutela
dei beni culturali viene attribuita a soggetti diversi  dallo  Stato;
successivamente a questa, anzi, il citato comma  1,  lettera  b-bis),
dell'art. 10 del decreto legislativo n. 368 del 1998,  nel  prevedere
le concessioni per la gestione dei servizi relativi ai beni culturali
di interesse nazionale, stabilisce, come s'e' detto, che deve restare
ferma la riserva statale sulla tutela dei beni. 
    Alla luce delle suesposte considerazioni la riserva di competenza
statale  sulla  tutela  dei  beni  culturali  e'  legata  anche  alla
peculiarita' del patrimonio storico-artistico  italiano,  formato  in
grandissima parte da opere nate nel corso di oltre venticinque secoli
nel territorio italiano e che delle vicende storiche del nostro Paese
sono espressione e testimonianza. Essi  vanno  considerati  nel  loro
complesso come un  tutt'uno,  anche  a  prescindere  dal  valore  del
singolo bene isolatamente considerato. 
    Nel modificare il quadro costituzionale delle competenze di Stato
e Regioni per la parte che qui interessa, il legislatore  costituente
ha  tenuto   conto   sia   delle   caratteristiche   del   patrimonio
storico-artistico   italiano,   sia   della   normativa    esistente,
attribuendo  allo  Stato  la  potesta'  legislativa  esclusiva  e  la
conseguente potesta' regolamentare in  materia  di  tutela  dei  beni
culturali e ambientali (art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.)  ed
alla legislazione concorrente di Stato e  Regioni  la  valorizzazione
dei beni culturali e ambientali (art. 117, terzo comma, Cost.). Se ne
deduce che la valorizzazione e' diretta  soprattutto  alla  fruizione
del bene culturale; sicche' anche il  miglioramento  dello  stato  di
conservazione attiene a quest'ultima nei luoghi  in  cui  avviene  la
fruizione e con riferimento ai modi di  questa.  Conseguentemente,  i
divieti  o  i  limiti   imponibili,   come   previsti   nella   norma
interloquita, laddove finalizzati alla  maggior  fruizione  dei  beni
monumentali o degli altri immobili interessati da  flussi  turistici,
e' ascrivibile ineludibilmente alla materia «valorizzazione dei  beni
culturali». 
    L'esaustiva ricostruzione  rinvenibile  nell'articolata  disamina
che    precede,    come     parzialmente     riportata,     evidenzia
inequivocabilmente come il fulcro della questione consista non  tanto
nell'apposizione di vincoli all'esercizio di  determinate  attivita',
quanto  piuttosto  nell'individuazione  dei  soggetti   istituzionali
competenti, sinora normativamente indicati  secondo  una  metodologia
ondivaga, oscillante nel tempo tra Stato ed enti locali, senza tenere
in debita considerazione  la  molteplicita'  delle  diverse  potesta'
correlate alla cura degli interessi pubblici, nei  differenti  ambiti
del  commercio  e  della  cultura,  in  una  logica   di   necessario
contemperamento delle posizioni eventualmente contrapposte. 
    I limiti apponibili all'esercizio del  commercio,  infatti,  sono
plurimi e attualmente contemplati all'articolo 3 del D.L. n. 138  del
2011, gia' sopra evocato, il cui comma I viene riportato di seguito. 
    I. Comuni, Province, Regioni e Stato, entro il 30 settembre 2012,
adeguano  i  rispettivi  ordinamenti   al   principio   secondo   cui
l'iniziativa e  l'attivita'  economica  privata  sono  libere  ed  e'
permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge  nei
soli casi di: 
    a)  vincoli  derivanti  dall'ordinamento  comunitario   e   dagli
obblighi internazionali; 
    b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; 
    c) danno alla sicurezza, alla liberta',  alla  dignita'  umana  e
contrasto con l'utilita' sociale; 
    d) disposizioni indispensabili per  la  protezione  della  salute
umana,  la   conservazione   delle   specie   animali   e   vegetali,
dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; 
    e) disposizioni relative alle attivita'  di  raccolta  di  giochi
pubblici  ovvero  che  comunque  comportano  effetti  sulla   finanza
pubblica." 
    Appare  pleonastico  sottolineare  come  la  predetta  norma   si
configuri, principalmente, quale limite alla liberta'  di  iniziativa
economica sancita all'articolo 41 della Costituzione e, come tale, e'
correttamente  correlata  alla  salvaguardia   di   beni   integranti
altrettanti valori della Costituzione perche' ritenuti di  preminente
rilevanza, quali la sicurezza, la salute,  l'ambiente  e  la  finanza
pubblica. 
    E,  in  proposito,  in   forza   dell'elementare   principio   di
sussidiarieta' applicato in  subiecta  materia,  e'  quella  comunale
l'amministrazione deputata  a  presidiare,  mediante  l'esercizio  di
un'adeguata potesta' regolamentare, il rispetto delle norme stabilite
dai soggetti titolari della potesta' legislativa,  e  necessariamente
emanate  in  conformita'   ai   precetti   costituzionali.   A   tale
posizionamento  istituzionale  devono  essere  ricondotti  i   poteri
enunciati nell'articolo 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.
267, che il Sindaco esercita in qualita' di ufficiale del  Governo  e
che sono connotati da un'ampiezza tale da non subire compromissioni o
contenimenti neppure in  ossequio  ai  noti,  prevalenti  e  talvolta
prevaricanti principi di liberta'  di  iniziativa  economica,  tutela
della concorrenza e del mercato e liberalizzazione commerciale. 
    E l'indiscutibile estensione delle anzidette  potesta'  sindacali
trova un'ulteriore, recentissima  conferma  proprio  nella  circolare
esplicativa  n.  3644/C  del  28  ottobre   2011,   con   la   quale,
successivamente all'abrogazione dei limiti di orario e degli obblighi
di chiusura degli  esercizi  commerciali,  avuto  specifico  riguardo
all'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, il Ministero
dello   Sviluppo   Economico   ha   espressamente   riconosciuto   la
legittimita'   di   "eventuali   specifici   atti    provvedimentali,
adeguatamente motivati e finalizzati a limitare le aperture  notturne
o a stabilire orari di  chiusura  correlati  alla  tipologia  e  alle
modalita' di esercizio dell'attivita' di somministrazione di alimenti
e bevande per motivi di pubblica sicurezza o per specifiche  esigenze
di tutela" (...) "potendosi legittimamente sostenere che trattasi  di
"vincoli"  necessari  ad  evitare  "danno  alla  sicurezza"  (...)  "
indispensabili  per  la   protezione   della   salute   umana   (...)
dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale". 
    In ogni caso, alla potesta' amministrativa comunale senza  dubbio
tuttora sussistente, non soltanto nelle linee generali ed  amplissime
sopra cennate, ma anche a termini dello stesso comma 1  dell'articolo
52 del decreto legislativo  n.  42/2004,  si  aggiunge  una  potesta'
legislativa regionale ai sensi del decreto  legislativo  n.  114  del
1998 che individua le Regioni quali soggetti  istituzionali  titolari
del  potere  normativo  in  materia  di  commercio,  con  previsione,
peraltro, convalidata  dalla  successiva  giurisprudenza  di  codesta
Ecc.ma Corte, che ha espressamente ricondotto l'ambito settoriale  in
argomento nel quarto comma dell'articolo 117 della  Costituzione.  Ed
in punto, la Regione ha esercitato tale  potere  inserendo  il  comma
4-bis nell'articolo 4 della legge regionale  6  aprile  2001,  n.  10
"Nuove norme in materia di commercio su aree  pubbliche",  introdotto
dall'articolo 16 della legge regionale 25 febbraio  2005,  n.  7.  La
disposizione, ancora in vigore ed oggetto  di  applicazione,  prevede
espressamente il divieto di esercitare il commercio su aree pubbliche
in forma itinerante nei centri storici  dei  comuni  con  popolazione
superiore ai cinquantamila abitanti. La norma e' stata censurata  con
giudizio promosso in via incidentale dal TAR Veneto che ha  sollevato
la questione di legittimita' costituzionale  perche'  discriminatoria
nei confronti di una vasta platea di piccoli imprenditori. 
    (...) La sentenza n. 247 del 2010,  conclusiva  del  giudizio  de
quo, appare significativa per l'odierna controversia poiche', per  un
verso, ribadisce la competenza regionale nella materia commercio "Per
non limitarsi alla, pur inequivoca, intitolazione  («Nuove  norme  in
materia di' commercio su aree pubbliche»),  appare  indubbio  che  le
disposizioni della legge in esame - avendo quale oggetto specifico la
normativa  regionale  del  commercio  su  aree  pubbliche   -   siano
riconducibili immediatamente alla materia «commercio», di  competenza
residuale delle regioni (sentenze n. 165 e n. 64 del 2007)";  e,  per
altro  verso,  ha  riscontrato  la  coerenza  della  norma  regionale
rispetto alla ratio, "essendo del tutto naturale che, nell'ambito  di
una generale regolamentazione della specifica attivita' del commercio
in  forma  itinerante,  vada  ricompresa  anche  la  possibilita'  di
disciplinarne nel concreto lo svolgimento, nonche' quella di vietarne
l'esercizio in ragione della particolare situazione  di  talune  aree
metropolitane (centri storici dei Comuni con popolazione superiore  a
cinquantamila abitanti, di modo che l'esercizio del commercio  stesso
avvenga entro i limiti qualificati invalicabili della tutela dei beni
ambientali e culturali. Infatti, la ratio del divieto trova  altresi'
giustificazione nello scopo di  garantire  indirettamente  attraverso
norme che ne salvaguardino la ordinata  fruizione  la  valorizzazione
dei maggiori centri storici delle citta' d'arte del  Veneto  a  forte
vocazione turistica". 
    La correttezza dell'operato del legislatore  regionale  e'  stata
valutata   in   ragione   dalla    determinatezza    e    puntualita'
dell'intervento che, in quanto circoscritto a specifiche  condizioni,
e'   risultato   essere   proporzionale   e   ragionevole    rispetto
all'obiettivo perseguito. Nella pronuncia, infatti, si legge che  "La
norma censurata, pertanto, non produce alcuna  lesione  di  regole  a
tutela della concorrenza, giacche' il divieto sancito  dalla  Regione
Veneto non  incide,  ne'  direttamente  ne'  in  direttamente,  sulla
liberta' di concorrenza; esso si colloca infatti -  senza  introdurre
discriminazioni fra differenti categorie di operatori  economici  che
esercitano l'attivita' in posizione identica o  analoga  nel  diverso
solco della  semplice  regolamentazione  territoriale  del  commercio
(disciplinala in coerenza con  la  salvaguardia  dei  beni  culturali
caratterizzanti la specifica realta'  del  territorio  regionale)  ed
appare razionalmente  giustificato  dalle  concrete  e  localizzabili
esigenze di tutela di altri interessi di rango costituzionale. 
    Come  gia'  detto,  la   disposizione   censurata   assicura   un
contemperamento  ragionevole  fra  la  liberta'  dell'esercizio   del
commercio  su  aree   pubbliche   in   forma   itinerante   (la   cui
autorizzazione,  peraltro,  abilita  all'esercizio   della   relativa
attivita' in tutto il territorio nazionale: art. 4,  comma  2,  della
legge  regionale  n.  10  del  2001)  e  l'introduzione  di  limitate
eccezioni, oggettivamente motivate dall'esigenza  di  non  superare i
limiti posti a tutela dei centri storici delle grandi  citta'  d'arte
della Regione. 
    Ma  tutto  quanto  prima  esposto  alimenta  il  dubbio  che   la
disposizione regionale vigente e quella odiernamente censurata  dalla
regione  Veneto  siano  suscettibili  di  sovrapposizioni  quantomeno
potenziali  e  possano  generare  perplessita'   ermeneutiche   circa
l'individuazione della normativa  concretamente  applicabile  perche'
prevalente ed assorbente entrambi i profili disciplinatori  afferenti
tanto il commercio quanto la cultura, senza conflitti di  competenze.
In tal  senso,  la  norma  regionale  menzionata  si  configura  come
correttamente delimitata tanto territorialmente, essendo riferita  ai
centri storici dei comuni con popolazione superiore a  "cinquantamila
abitanti"  ,  quanto  oggettivamente,  poiche'  concerne  appunto  il
"commercio su aree pubbliche in forma itinerante". Anche  sotto  tale
profilo la disposizione statale appare incidente  con  la  disciplina
regionale,  proprio  perche',  a  differenza  della  norma  regionale
veneta,  contempla  indistintamente  tutte  le  aree   pubbliche   di
particolare valore archeologico, storico, artistico e  paesaggistico,
senza alcun criterio discretivo, ulteriore rispetto alla presenza  di
complessi monumentali o  di  altri  immobili  del  demanio  culturale
interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti. 
    Per effetto della novella statale oggetto del presente  giudizio,
quindi, la  portata  precettiva  delle  disposizioni  regionali,  che
avessero   trovato   puntuale   attuazione   nelle   conseguenti    e
consequenziali    determinazioni    comunali,     potrebbe     subire
un'inammissibile compromissione a seguito di un atto  provvedimentale
emanato dal Sovrintendente nell'esercizio di potesta'  amministrative
connotate da un'estensione tale da  travolgere  qualsiasi  competenza
costituzionalmente garantita, sino a rasentare l'arbitrio.  Cio'  che
sconcerta sono appunto le modalita' indiscriminate, e  destrutturanti
il contesto ordinamentale, con le quali l'intervento de quo e'  stato
legislativamente concepito, non certo le esigenze di valorizzazione e
migliore fruibilita' del patrimonio culturale allo stesso sottese. E'
per riaffermare tali esigenze, salvaguardando  tuttavia  gli  assetti
disciplinatori regionali gia' vigenti ed efficacemente operanti,  che
la difesa  regionale  ha  promosso  in  via  principale  la  presente
questione di legittimita' costituzionale, sollecitando  la  pronuncia
di  codesta  Ecc.ma  Corte  affinche'  chiarisca  la  reale   portata
legislativa della disposizione impugnata ed eventualmente la  espunga
dal quadro normativo di riferimento perche' con  esso  incompatibile,
restituendo certezza giuridica agli operatori economici del settore e
ricomponendo in termini di coerenza  quello  che  attualmente  e'  un
insieme frammentario e non coordinato di una pluralita' di competenze
soggettivamente ed oggettivamente simultaneamente interferenti. 
    Tale esigenza chiarificatrice pare corroborata anche  dall'inciso
contenuto nella disposizione statale che, specificando  ulteriormente
l'area suscettibile di  valorizzazione  in  termini  di  presenza  di
"immobili interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti",
attrae nell'alveo materiale  delle  norme  anche  la  disciplina  del
turismo, che e' esso pure ambito soggetto alla  potesta'  legislativa
residuale regionale. 
    Se dunque, sia la potesta' normativa in tema  di  commercio,  che
quella in materia di turismo  sono  di  attribuzione  regionale;  se,
parimenti   regionale   e'   la   competenza   legislativa,   seppure
concorrente, in ordine agli interventi destinati alla  valorizzazione
del patrimonio culturale,  nei  cui  confronti  si  configurano  come
insussistenti tanto una potesta' trasversale statale ricondotta  alla
tutela della concorrenza di cui alla lettera  c)  dei  comma  secondo
dell'articolo 117  della  Costituzione,  quanto  la  stessa  potesta'
esclusiva afferente la tutela del predetto patrimonio di cui all'art.
117,  comma  secondo,  lettera   s)   della   vigente   Costituzione,
trattandosi  di  limiti  e   divieti   all'esercizio   di   attivita'
piccolo-imprenditoriale, risulta incomprensibile  e  sistematicamente
inaccettabile il disallineamento afferente l'esercizio delle potesta'
amministrative che la disposizione impugnata determina. 
    Sul punto, e' certamente indiscutibile che possa  ed  anzi  debba
essere  esercitata  la  potesta'  amministrativa  comunale  anche  in
riferimento alla vastissima categoria  dei  beni  qualificabili  come
culturali  che,  come  precisato   nell'articolo   10   del   decreto
legislativo  n.  42/2004,  include  i  beni  immobili  e  mobili  che
presentano   interesse    artistico,    storico,    archeologico    o
etnoantropologico, ivi comprese le pubbliche piazze,  vie,  strade  e
altri spazi aperti urbani di interesse artistico o  storico.  Ma  gli
anzidetti poteri comunali presentano altresi' profili di  presidio  e
preservazione, laddove, ad esempio, devono garantire l'osservanza  di
norme particolarmente rigorose, quali l'art. 20 del medesimo decreto,
che sanziona autonomamente, qualificandoli di peculiare gravita', gli
alti  di  distruzione,  deterioramento  o  danneggiamento   di   beni
culturali, i quali, peraltro, sono normativamente sottratti anche  ad
usi non compatibili (...). 
    Indubbiamente, sino all'intervento legislativo in esame, tutte le
cennate potesta' amministrative sono state  esercitate  nel  rigoroso
rispetto del potere consultivo  di  cui  sono  tributari  gli  organi
statali, che, ora, invece, per effetto  della  novella,  diventano  i
protagonisti  dell'amministrazione  attiva,  secondo  un  modello  di
rovesciamento prospettico che emargina le amministrazioni comunali ad
un molo meramente valutativo, e  neppure  vincolante,  con  riverberi
decisivi sulla restante e rilevantissima  attivita'  di  governo  del
territorio,  sia  pianificatoria  che  organizzativa.   La   potesta'
legislativa     regionale     rimane     paralizzata     a      causa
dell'indeterminatezza dei parametri di riferimento e  della  concreta
impossibilita' di statuire norme destinate a disciplinare ambiti  nei
quali la potesta' esercitata e' di rango statale. 
    Nella gia' citata decisione  n.  247  del  2010,  codesto  Ecc.mo
Collegio ha appunto riconosciuto la competenza comunale in materia in
relazione  al  disposto  dell'articolo  52,  comma  1,  del   decreto
legislativo n. 42/2004, nel testo all'epoca vigente, affermando  che:
D'altronde, di tale esigenza si e' fatto carico anche il  legislatore
statale con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei
beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge
6 luglio 2002, n. 137), che - rendendo  esplicito  che  le  pubbliche
piazze, le vie, le strade e  gli  altri  spazi  urbani  di  interesse
artistico o storico rientrano fra i beni culturali, e che  essi  sono
pertanto oggetto di tutela ai fini della conservazione del patrimonio
artistico e del decoro urbano (art. 10, comma  4,  lettera  g)  -  ha
ribadito, in conformita' di quanto gia' stabilito dall'art. 28, comma
16,  del  decreto  legislativo  n.  114  del  1998,  che   i   Comuni
«individuano le aree pubbliche aventi valore  archeologico,  storico,
artistico  e  paesaggistico  nelle  quali  vietare  o  sottoporre   a
condizioni particolari l'esercizio del commercio» (art. 52). 
    Non possono, quindi, condividersi, perche' oltretutto immotivate,
le ragioni fondanti la trasmigrazione della competenza amministrativa
attiva  dagli  enti  locali  allo  Stato,  in  assenza  di  qualsiasi
coordinamento istituzionale con la potesta' amministrativa  comunale,
che a tutti gli effetti rimane, ed incidendo  surrettiziamente  sulle
attribuzioni legislative regionali, utilizzando a pretesto un ambito,
quale   quello   della   "valorizzazione   dei    beni    culturali",
particolarmente duttile per la complessita' dei profili che  involge.
E cio', sebbene proprio l'articolo 1, comma 3 del decreto legislativo
n. 42/2004 assegni espressamente alle Regioni un  ruolo  determinante
appunto  per  la  valorizzazione  dei  beni   culturali   come   gia'
abbondantemente evidenziato. 
    Ecco perche' anche a  voler  ammettere  una  diversa  valutazione
degli  interessi  pubblici  correlati  ai   contesti   attratti   dal
legislatore statale nella  regolamentazione  in  argomento,  comunque
l'intervento normativo in  esame  appare  contrario  al  terzo  comma
all'articolo   117   della   Costituzione,   ove   e'   allocata   la
valorizzazione dei beni culturali, atteso che, trattandosi di  ambito
soggetto a potesta'  legislativa  concorrente,  esso  avrebbe  dovuto
essere contenuto nei margini che gli sono propri e cioe'  nei  limiti
dell'enucleazione dei principi fondamentali. 
    Invece, la disposizione interloquita ha attribuito ad  un  organo
statale un potere coercitivo generale  ed  indeterminato,  del  tutto
analogo a quello previsto nel previgente testo  unico  m  materia  di
beni culturali di cui al decreto legislativo n. 490/1999, senza porre
la  minima  attenzione  al  riparto  di  competenze   di   estrazione
costituzionale attualmente esistente. 
    Infine, ad avviso dello scrivente patrocinio,  e'  giuridicamente
preoccupante la previsione, pure contenuta nell'articolo  4bis  della
legge n. 112/2013, che, in riferimento alle  aree  individuabili  per
l'applicazione dei provvedimenti statali regolatori o inibitori,  non
si limita alle locuzioni utilizzate, che gia' risultano singolarmente
indeterminate e non identificabili, come sopra eccepito, ma  include,
altresi', le "aree a essi contermini", laddove  "essa  puo'  indicare
anche i  complessi  monumentali  o  semplicemente  i  beni  immobili.
Correlativamente, non meno criptica si configura la  possibilita'  di
estendere l'oggetto dell'intervento  amministrativo  statale  sino  a
ricomprendere "qualsiasi altra attivita' non compatibile", in spregio
dell'art. 97 della Costituzione. 
    E sicuramente, si ribadisce, tale indeterminatezza non  puo'  non
riflettersi  negativamente  anche   sulla   potesta'   amministrativa
regionale  di  cui  all'articolo  118  della  Costituzione,   laddove
quest'ultima sia finalizzata  alla  pianificazione  e  programmazione
delle attivita' sia commerciali,  che  artigianali,  che  turistiche,
rilevata l'assenza di qualsiasi parametro di valutazione, nonche'  di
qualsivoglia meccanismo di raccordo istituzionale,  che  consenta  il
legittimo  esercizio  delle  predette  attribuzioni  secondo  i  noti
criteri di economicita', efficacia ed  efficienza,  senza  spreco  di
risorse,  perseguendo  quegli   obiettivi   di   valorizzazione   del
patrimonio culturale che non possono essere disgiunti  da  metodi  di
ottimizzazione e finalita' di sviluppo. Si rammenta, infatti, che  la
consultazione  obbligatoria,   ma   non   vincolante,   e'   prevista
esclusivamente con le amministrazioni comunali. 
Violazione dell'articolo 120 della costituzione 
    I dubbi ermeneutici e l'incertezza delle plurime fonti  normative
che si sono progressivamente sovrapposte hanno, tra l'altro, generato
notevoli cesure tra i vari livelli di governo che  risultano  tuttora
alieni  dal  pieno  e  soddisfacente  utilizzo  degli  strumenti   di
concertazione strutturati per essere destinati nelle sedi deputate al
necessario confronto ed alla collaborazione interistituzionale. 
    Ed invero, come e' noto, al comma 6 dell'articolo 8 della legge 5
giugno 2003, n. 131 «Disposizioni per l'adeguamento  dell'ordinamento
della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3», e'
espressamente previsto che il Governo possa promuovere intese in sede
di Conferenza Stato-Regioni o  di  Conferenza  unificata,  dirette  a
favorire  l'armonizzazione  delle  rispettive   legislazioni   o   il
raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di  obiettivi
comuni. Va adeguatamente considerato che  esempi  attuativi  di  tale
disposto normativo si ravvisano anche in settori,  quale  quello  del
turismo,  di  competenza  esclusiva  regionale.  In  tale   contesto,
infatti, le forme di leale collaborazione tra Stato e Regioni si sono
sviluppate sino a divenire lo strumento privilegiato di coordinamento
delle diverse legislazioni regionali e  di  definizione  di  standard
comuni in tutto il territorio 
    In  particolare,  il  DPCM  21  ottobre  2008,  pubblicato  nella
Gazzetta Ufficiale n. 34 dell'11 febbraio 2009, e' stato  emanato  in
attuazione dell'articolo 2, comma 193,  lettera  a)  della  legge  24
dicembre 2007, n.  244  che  prevedeva,  appunto,  l'adozione  di  un
decreto di natura non regolamentare del Presidente del Consiglio  dei
Ministri per definire "le tipologie dei servizi forniti dalle imprese
turistiche  rispetto  a  cui  vi   e'   necessita'   di   individuare
caratteristiche similari e omogenee su tutto il territorio  nazionale
tenuto  conto  delle  specifiche  esigenze  connesse  alle  capacita'
ricettiva e di fruizione dei contesti territoriali", d'intesa con  la
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le  Regioni  e  le
Province autonome di Trento e Bolzano. 
    In termini piu' generali, la necessita'  di  una  convergenza  in
questo particolare ambito di legislazione, nel quale  i  settori  del
commercio e del  turismo  si  intrecciano  con  quello  afferente  la
valorizzazione dei beni culturali, appare di indiscutibile pregnanza,
attesa la ragionevolezza ed assoluta condivisibilita'  di  interventi
regolatori  dell'attivita'  imprenditoriale   per   contemperare   le
esigenze di salvaguardia del diritto di impresa con quelle  afferenti
altri  valori  costituzionalmente  garantiti.   D'altro   canto,   la
necessita'   di   avviare   il   confronto   interistituzionale    e'
espressamente   indicata   anche   nelle   stesse   premesse    della
ripetutamente evocata direttiva del Ministero datata 10 ottobre  2012
laddove, oltre a  ribadire  che  "lo  svolgimento  di  attivita'  non
compatibili puo' impedire di assicurare  livelli  di  valori  nazione
qualitativamente  adeguati  allo  straordinario   valore   dei   beni
interessi, con effetti pregiudizievoli  anche  sullo  sviluppo  e  la
promozione del turismo culturale", si precisa, nel contempo, che  "il
conseguimento degli obiettivi e il  soddisfacimento  delle  esigenze,
sopra indicati, di tutela e valorizzazione del  patrimonio  culturale
richiede la piena e leale collaborazione tra le  diverse  Istituzioni
pubbliche a vario titolo competenti,  nell'esercizio  dei  rispettivi
poteri e attribuzioni. "Ma, in realta', l'intero testo della predetta
direttiva  e'  costellato  da  riferimenti  al  principio  di   leale
collaborazione, e cosi', al punto 3.1 della  medesima  si  legge  che
"gli uffici  del  Ministero  collaboreranno  con  le  Amministrazioni
locali"; ancora "L'esercizio congiunto dei poteri in questione potra'
essere  opportunamente  racchiuso  nella   forma   dell'accordo   tra
pubbliche amministrazioni volto  a  disciplinare  lo  svolgimento  in
collaborazione  di   attivita'   di   interesse   comune   ai   sensi
dell'articolo 15 della legge 7 agosto 1990, n.  241",  ed  infine  al
punto 3.2.3, con riferimento all'individuazione dei soggetti titolari
di diritti di uso individuale, e' imposta agli uffici governativi  la
collaborazione con i competenti enti territoriali. 
    Al  riguardo,  si  sottolinea  come  l'articolo  5  del   decreto
legislativo n. 42/2004 abbia cristallizzato in norma il principio  di
leale collaborazione  di  cui  all'articolo  120  della  Costituzione
proprio in riferimento all'esercizio delle funzioni amministrative in
materia  di  beni  culturali,  utilizzando  il  termine  atecnico  di
"cooperazione ". E tale norma si aggiunge ad altre  disposizioni  del
medesimo decreto legislativo, che declinano una  multiforme  varieta'
di modelli di intesa e  coordinamento  tra  lo  Stato  e  le  Regioni
stabilite per l'esercizio delle rispettive competenze amministrative. 
    In dettaglio, l'articolo 17, comma 1, del decreto  in  argomento,
in  relazione  alle   funzioni   amministrative   di   catalogazione,
stabilisce che "il Ministero, con il concorso delle regioni  e  degli
altri enti pubblici territoriali, assicura la catalogazione dei  beni
culturali  e  coordina  le  relative  attivita'  ";  ed  ancora,   il
successivo articolo 18, al comma 2, in riferimento alle  funzioni  di
vigilanza sulle cose su cui sussiste un interesse culturale,  prevede
che "Sulle cose di cui all'articolo 12,  comma  1,  che  appartengano
alle regioni e agli altri enti pubblici  territoriali,  il  Ministero
provvede  alla  vigilanza  anche  mediante  forme  di  intesa  e   di
coordinamento con le regioni medesime. 
    Ne' pare potersi obiettare, a contrariis, che, vertendosi in tema
di  potesta'  legislativa  concorrente,  lo  Stato,  nella  complessa
disposizione odiernamente interloquita, avrebbe dettato semplicemente
i principi fondamentali, per i quali  non  puo'  essere  invocato  il
rispetto del principio di leale collaborazione. E' di tutta evidenza,
invece, come, in realta', nella fattispecie in esame lo  Stato  abbia
travalicato   il   proprio   ambito   di   intervento   astrattamente
ammissibile, dettagliando le statuizioni ed attribuendo  agli  organi
statali un potere prescrittivo ed operativo che diverge  notevolmente
dalla  semplice  indicazione  dei  principi  fondamentali  (cfr,   la
sentenza n. 222 del 2008). 
    Infine, non si puo' non rinviare al  terzo  comma  dell'art.  118
della Costituzione, ove si impone alla legge statale la disciplina di
forme di intesa e di coordinamento tra Stato e Regioni proprio  nella
materia della tutela dei beni culturali. Con cio' si  intende,  salvo
il contrario avviso di codesto Ecc.mo Collegio, che qualora si reputi
riconducibile la  disposizione  censurata  all'ambito  di  competenza
esclusiva statale di cui all'articolo 117, comma secondo, lettera  s)
della  Costituzione,  si  impone  una  pronuncia  interpretativa  che
armonizzi gli  assunti,  ripetutamente  espressi  da  codesta  Ecc.ma
Corte, che escludono  il  principio  di  leale  collaborazione  nelle
materie di competenza esclusiva statale o concorrente,  limitatamente
all'individuazione dei principi fondamentali, ed il precetto di rango
costituzionale evocato che  riafferma  la  necessita'  di  coordinare
l'esercizio delle potesta' amministrative in  tale  materia  mediante
forme di intesa e coordinamento. E  quanto  prospettato  tiene  conto
dell'orientamento  ermeneutico  secondo   il   quale   la   certezza,
dell'ascrivibilita'  di  una  disposizione  impugnata  in  un  ambito
materiale  riservato  alla  potesta'  legislativa  statale,  preclude
l'obbligo di istituire meccanismi concertativi tra Stato  e  Regione,
atteso  che  gli  stessi  debbono,  in  linea  di  principio,  essere
necessariamente previsti  solo  quando  vi  sia  una  concorrenza  di
competenze nazionali e regionali, per la quale non  possa  ravvisarsi
la sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri  (v.
le sentenze n. 234 del 2012, n. 88 del 2009 e n. 219  del  2005).  Al
riguardo,  per  le   considerazioni   proposte   relativamente   alla
disposizione impugnata, proprio perche' non e' sicura  la  prevalenza
di un complesso normativo rispetto ad altri,  mentre  e'  sicuramente
identificabile solo l'intreccio di una pluralita' di  competenze,  si
configura come indefettibile un adeguato e fruttuoso confronto tra  i
vari livelli di governo." 
    Su   tale   base   ricostruttiva   si   puo'   ora    prospettare
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  52,  commi  1-ter,   del
decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, cosi' come  modificato  e
integrato  dall'art.  4,  comma  1,  D.L.  31  maggio  2014,  n.  83,
convertito, con modificazioni, dalla legge  29  luglio  2014,  per  i
seguenti 
 
                               Motivi 
 
Violazione degli artt. 117, commi 3 e  4  e  120  della  Costituzione
della Repubblica Italiana 
    L'art. 4, comma 1, D.L. 31 maggio 2014, n. 83,  come  convertito,
con modificazioni, dalla  legge  29  luglio  2014,  ha  integrato  il
rinumerato comma 1-ter, dell'art.  52,  del  decreto  legislativo  22
gennaio 2004, n. 42, attribuendo ai  competenti  uffici  territoriali
del Ministero, d'intesa con i Comuni, una potesta' revocatoria  delle
autorizzazioni  e  delle  concessioni  di  suolo  pubblico  ai   fini
dell'esercizio di attivita' commerciali e artigianali. 
    Si  tratta  di  un  potere  di  autotutela  decisoria  di  natura
straordinaria, in quanto non si  limita  a  consentire  all'autorita'
amministrativa procedente una rivalutazione  dell'interesse  pubblico
sotteso  al   provvedimento   sottoposto   a   riesame   ovvero   una
riconsiderazione del merito dello stesso alla  luce  di  sopravvenute
ragioni di interesse pubblico o  di  mutamento  delle  situazioni  di
fatto,  ma  invece  consente   di   procedere   alla   revoca   delle
autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico, anche in deroga
al quadro normativo di riferimento. In  particolare  in  deroga  alla
disciplina dettata dalle Regioni in  materia  di  commercio  a  norma
dell'articolo 28, commi 12, 13 e 14, del decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 114.  Peraltro  avente  ora  fondamento  costituzionale  per
effetto dell'art.  117,  comma  4,  della  Carta  costituzionale  che
attribuisce alle Regioni  una  competenza  legislativa  residuale  ed
esclusiva in tale materia. 
    Ma anche in deroga ai criteri per il rilascio e il rinnovo  della
concessione dei  posteggi  per  l'esercizio  del  commercio  su  aree
pubbliche e alle disposizioni transitorie  stabilite  nell'intesa  in
sede di Conferenza unificata, ai  sensi  dell'articolo  8,  comma  6,
della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall'articolo  70,  comma
5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n.  59  recante  attuazione
della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo  e  del  Consiglio
del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. 
    Tale potesta' autoritativa si pone nell'alveo della  disposizione
contenuta nel primo periodo del comma 1-ter non solo per  ragioni  di
"geografia" normativa, ma  perche'  presenta  le  medesime  finalita'
teleologiche  come  espressamente  confermato  dal  legislatore   che
richiama "le esigenze di cui al presente comma". 
    Ne consegue che le  ragioni  di  incostituzionalita'  gia'  fatte
valere nel giudizio promosso avanti  codesta  Corte  e  rubricato  al
numero  di  ruolo  101/2013  e  sopra  riportate  si  riverberano  di
necessita' anche sulla disposizione qui oggetto di impugnazione e  ne
determinano l'illegittimita'. 
    Nello specifico anche la disposizione di legge da ultimo aggiunta
si pone  in  un  ambito  materiale  connotato  da  sovrapposizione  e
intersezioni di varie materie. La tutela e  valorizzazione  dei  beni
culturali,  il  commercio  e  il  turismo.   A   tal   riguardo   "la
giurisprudenza costituzionale ha precisato che, qualora una normativa
interferisca con piu' materie, attribuite dalla Costituzione,  da  un
lato, alla potesta'  legislativa  statale  e,  dall'altro,  a  quella
concorrente o residuale delle Regioni, occorre  individuare  l'ambito
materiale che possa considerarsi, nei singoli casi,  prevalente"  (ex
plurimis, sentenze n. 118 del 2013, n. 334 del 2010, n. 237 del  2009
e n. 50 del 2005). 
    Al fine di individuare tale prevalenza nel caso di specie il dato
letterale della norma non risulta dirimente in quanto fa  riferimento
al contempo sia alle esigenze di tutela  dei  beni  culturali  sia  a
quelle di valorizzazione degli stessi. Occorre, invece,  guardare  al
contenuto sostanziale  delle  attivita'  interessate  dalla  potesta'
provvedimentale  attribuita  alle  autorita'  statali   dalla   norma
impugnata, che si riferisce ad attivita' di  natura  commerciale  e/o
artigianale che richiedano il previo rilascio di un autorizzazione  o
concessione di suolo pubblico. Ora, la regolamentazione  di  esse  in
correlazione ai beni culturali, non sembra ricadere nell'ambito della
nozione di tutela  dei  beni  culturali  cosi'  come  essa  e'  stata
ricostruita dalla Corte costituzionale anche alla  luce  del  dettato
normativo di cui all'art 3  del  Codice  dei  beni  culturali  e  del
paesaggio. La tutela, infatti, va riferita  alla  individuazione  dei
beni culturali e alla cura conservativa degli stessi, ossia,  pur  in
una visione non meramente statica della stessa, si puo' far rientrare
nel suo ambito sostanziale solo una disciplina che sia  diretta  alla
salvaguardia della culturalita' del bene, anche regolando i diritti e
comportamenti inerenti al patrimonio culturale.  Ma  pur  sempre  per
soddisfare esigenze di protezione e difesa. 
    Al contrario, la valorizzazione dei beni culturali e' diretta  ad
"assicurare le  migliori  condizioni  di  utilizzazione  e  fruizione
pubblica  del  patrimonio   culturale".   Ora   la   regolamentazione
dell'esercizio di attivita'  commerciali  nell'ambito  dei  complessi
monumentali e degli  altri  immobili  del  demanio  culturale  sembra
diretta in modo prevalente a contemperare le esigenze  del  commercio
con  la  necessita'  di  assicurare   le   migliori   condizioni   di
utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio culturale. 
    Ragion per cui appare evidente che nel caso di specie si cade, in
modo  preponderante,  nell'ambito  della  materia   di   legislazione
concorrente della valorizzazione dei beni culturali. 
    Una conferma di cio' si puo' rinvenire nella stessa lettera della
legge che non a caso  fa  riferimento  unicamente  alle  esigenze  di
decoro, che ricadono in quella che e' definita dal  Codice  dei  beni
culturali una forma di tutela indiretta. Ossia la materia tutela  dei
beni  culturali,  in  tale  ambito  disciplinare  caratterizzato   da
sovrapposizioni e intersecazioni di  competenze,  assume  un  rilievo
solo mediato e indiretto, dovendosi invece riconoscere una prevalenza
alla materia della valorizzazione dei beni culturali. 
    Ne', a negare tale  conclusione,  vi  e'  la  necessita'  che  la
valorizzazione debba essere  attuata  in  forme  compatibili  con  la
tutela e  tali  da  non  pregiudicarne  le  esigenze.  In  quanto  il
carattere  servente  della  valorizzazione  non  puo'  implicare   un
indiscriminato assorbimento della stessa  nell'ambito  della  tutela,
fenomeno esegetico che determinerebbe una abrogazione  implicita  del
dettato costituzionale nella parte in  cui  ha  invece  espressamente
previsto una distinzione tra i due ambiti materiali. 
    Sulla  base  di  tali  conclusioni  si  deve  ritenere   che   il
legislatore statale, avendo legiferato in una materia di legislazione
concorrente, avrebbe dovuto rispettare  i  limiti  all'uopo  previsti
dalla Costituzione, ossia si sarebbe dovuto limitare  a  dettare  una
normativa di principio, lasciando adeguato margine di disciplina alla
normativa di  dettaglio  di  competenza  regionale.  Avrebbe,  cioe',
dovuto limitarsi a prescrivere "criteri e obiettivi"  lasciando  alle
Regioni "l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare  per
raggiungere quegli obiettivi" (sentenza n. 181 del 2006). 
    Cio' non  e'  avvenuto,  avendo  invece  il  legislatore  statale
previsto una puntuale disciplina  o,  rectius,  avendo  attribuito  a
organi dello Stato dei poteri regolatori in  materia  (primo  periodo
del comma 1-ter) e dei poteri provvedimentali  (secondo  periodo  del
medesimo comma) cosi' esautorando la competenza  regionale.  Peraltro
non  solo  regolamentando  in  materia  di  valorizzazione  dei  beni
culturali, ma anche con riferimento alle materie del commercio e  del
turismo, incise da tale  disciplina  e  rientranti  nella  competenza
residuale ed esclusiva delle regioni. Come confermato, inoltre, dalla
espressa previsione contenuta nel periodo aggiunto  al  comma  1-ter,
della possibilita' per gli organi statali di  derogare,  in  sede  di
riesame, la  disciplina  regionale  in  materia  di  commercio  e  la
disciplina concordata in sede di  Conferenza  unificata  nella  detta
materia. 
    Peraltro, anche qualora, e  non  pare  ipotizzabile,  si  dovesse
concludere  che  la  concorrenza  e  sovrapposizione  di   competenze
legislative in materia non  possa  essere  risolta  identificando  un
ambito  materiale   prevalente,   nondimeno   secondo   la   costante
giurisprudenza  di  codesta  Corte  "la   suddetta   concorrenza   di
competenze,  in  assenza  di  criteri   previsti   in   Costituzione,
giustifica l'applicazione  del  principio  di  leale  collaborazione"
(sentenza n. 50 del 2008), il quale deve permeare i rapporti  tra  lo
Stato e  il  sistema  delle  autonomie.  Per  cui  le  norme  statali
impugnate non prevedendo alcuna forma di coordinamento, neppure sotto
forma di intesa in  sede  di  conferenze  intergovernative,  comunque
dovrebbero ritenersi costituzionalmente illegittime in quanto  lesive
del principio di leale  collaborazione  di  cui  all'art.  120  della
Costituzione della Repubblica italiana, ove non fosse  identificabile
quale sia la materia prevalente oggetto della disciplina normativa. 
Violazione dell'art. 118 della Costituzione 
    La disposizione in questa  sede  impugnata  risulta  peraltro  in
contrasto con il disposto dell'art. 118 della Costituzione, ove  essa
attribuisce una potesta'  amministrativa  ad  un  organo  statale  in
violazione dei criteri attributivi dettati dalla Carta fondamentale. 
    A tal riguardo giova ricordare che la giurisprudenza  di  codesta
Corte afferma che "affinche', dunque, nelle materie di  cui  all'art.
117,  terzo  e  quarto  comma,  Cost.,  una   legge   statale   possa
legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello  centrale
ed al tempo stesso regolarne  l'esercizio,  e'  necessario  che  essa
detti una  disciplina  logicamente  pertinente  (dunque  idonea  alla
regolazione delle suddette funzioni), che risulti limitata  a  quanto
strettamente indispensabile a tale fine e che sia adottata a  seguito
di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di  governo
coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione  o,  comunque,
attraverso  adeguati  meccanismi  di  cooperazione  per   l'esercizio
concreto delle funzioni amministrative allocate in capo  agli  organi
centrali (da ultimo, sentenza n. 278  del  2010).  Infatti,  solo  la
presenza di tali presupposti, alla stregua di uno  scrutinio  stretto
di costituzionalita', consente  di  giustificare  la  scelta  statale
dell'esercizio unitario di funzioni, allorquando emerga l'esigenza di
esercizio unitario delle funzioni medesime (ex plurimis, sentenze  n.
76 del 2009, n. 339 e n. 88 e del 2007, n. 214 del 2006, n. 242 e  n.
151 del 2005)" (decisione 22 luglio 2011, n. 232). 
    Nel caso di specie l'attribuzione  di  una  potesta'  revocatoria
alle  autorita'  statali  non  e'  accompagnata  da  una   disciplina
legislativa logicamente pertinente e idonea  alla  regolazione  delle
suddette funzioni, in quanto  il  legislatore  statale  si  limita  a
menzionare delle generiche  esigenze  teleologiche  di  tutela  e  di
valorizzazione del patrimonio immobiliare  pubblico,  che  dovrebbero
guidare l'amministrazione procedente  nell'esercizio  della  potesta'
pubblica, senza invero prevedere alcuna sostanziale parametrazione  e
regolamentazione sostanziale della stessa. Cosa tanto piu' grave  ove
e' prevista la possibilita' di  derogare  la  disciplina  legislativa
regionale in materia commercio ed i criteri  per  il  rilascio  e  il
rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio del  commercio
su  aree  pubbliche  e  alle   disposizioni   transitorie   stabilite
nell'intesa in sede di Conferenza unificata, ai  sensi  dell'articolo
8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall'articolo
70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo  2010,  n.  59  recante
attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo  e  del
Consiglio del 12  dicembre  2006  relativa  ai  servizi  nel  mercato
interno. 
    Nel caso di specie, dunque, la  norma  di  relazione  attributiva
della  potesta'  amministrativa  sarebbe  del  tutto  orfana  di  una
disciplina  idonea  a  delimitarne  e  a  guidarne  l'esercizio,  con
conseguente violazione dei parametri costituzionali di riferimento di
cui  all'art.  118   Cost,   cosi'   come   elaborati   dalla   Corte
costituzionale, oltre che con  lesione  degli  artt.  3  e  97  della
Costituzione come ora sara' piu' approfonditamente illustrato. 
Violazione degli artt. 3 e 97  della  Costituzione  della  Repubblica
Italiana 
    Come  rilevato,  il  comma  1-ter  dell'art.   52   del   decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, attribuisce ai competenti  organi
dello Stato un potere di  revoca  di  natura  straordinaria.  Questo,
infatti non solo e' diretto a  rivalutare  le  ragioni  di  interesse
pubblico  sottese  al  provvedimento  oggetto  di  riesame  ovvero  a
compiere una nuova ponderazione di merito alla luce  di  sopravvenute
ragioni di interesse generale o di mutamenti di  fatto,  ma  consente
all'autorita'   amministrativa   destinataria   della   potesta'   di
autotutela decisoria di revocare l'autorizzazione o la concessione di
suolo pubblico in deroga alla disciplina legislativa  che  regola  la
materia e in particolare alle disposizioni normative regionali di cui
all'articolo 28, commi 12, 13 e 14, del decreto legislativo 31  marzo
1998, n. 114,  e  successive  modificazioni,  nonche'  in  deroga  ai
criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione  dei  posteggi
per l'esercizio del commercio su aree pubbliche e  alle  disposizioni
transitorie stabilite nell'intesa in sede di Conferenza unificata, ai
sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno  2003,  n.  131,
prevista dall'articolo 70, comma 5, del decreto legislativo 26  marzo
2010, n.  59  recante  attuazione  della  direttiva  2006/123/CE  del
Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006  relativa  ai
servizi nel mercato interno. 
    Ci si trova, percio', dinanzi ad un potere di  revoca  del  tutto
sui generis, che non involge, come ordinariamente  avviene,  un  mera
riconsiderazione dell'interesse  pubblico,  ma  che  consente  invece
all'autorita' amministrativa procedente di elidere gli effetti di  un
precedente provvedimento amministrativo, anche "alterando" il  quadro
normativo di riferimento. Per tal ragione sarebbe stato assolutamente
necessario che il legislatore avesse esattamente regolato e  definito
tale potere o meglio, vertendosi in materia di competenza legislativa
concorrente e residuale delle regioni, come in precedenza dimostrato,
avesse adottato  la  sola  normativa  di  principio  demandando  alle
Regioni di integrare la stessa.  Invece,  la  disposizione  di  legge
impugnata si limita, in modo autoreferenziale, a un generico richiamo
alle esigenze contenute nel medesimo comma 1-ter, senza in alcun modo
fissare quali siano i limiti entro cui  possa  essere  esercitata  la
potesta'  pubblica   e   in   particolare   i   confini   entro   cui
l'amministrazione procedente possa derogare alla legislazione vigente
in materia. 
    Cio' determina una palese irragionevolezza della norma oltre  che
un evidente violazione del principio di eguaglianza e  del  principio
di  legalita'  sostanziale  dell'azione  amministrativa   in   quanto
praticamente  si  demanda   all'autorita'   procedente   l'arbitraria
liberta'  di  stabilire  essa  stessa  quali  siano  i  criteri  e  i
presupposti normativi fondanti  il  proprio  potere,  limitandosi  il
legislatore ad un generico e  indiretto  richiamo  alle  esigenze  di
tutela e valorizzazione dei beni culturali. Richiamo  teleologico  di
fatto inidoneo a fondare  i  necessari  presupposti  legislativi  del
potere amministrativo. Basti pensare  che,  a  seconda  dell'autonoma
valutazione di ciascuna autorita' procedente  statale  dislocata  sul
territorio, situazioni del tutto identiche potrebbero essere trattate
in modo diverso, prevedendo in alcuni casi la revoca e  in  altri  la
permanenza dell'atto autorizzatorio o concessorio oggetto di riesame.
Con cio' la disposizione qui impugnata si pone in contraddizione  con
il principio di eguaglianza di  cui  all'art.  3  della  Costituzione
della Repubblica italiana. 
    La  disposizione  impugnata  pare  peraltro  anche   viziata   da
irragionevolezza  oltre  che  lesiva  del  principio   di   legalita'
sostanziale dell'azione amministrativa  e  di  buon  andamento  della
pubblica  amministrazione.  Di  fatti,  non  e'  sufficiente  che  il
legislatore attribuisca una pubblica potesta' ma e' necessario che lo
stesso ne regolamenti l'esercizio in  maniera  tale  che  l'autorita'
amministrativa  possa  esercitare  il  potere  pubblico  o  in   modo
vincolato o secondo margini di discrezionalita'  che  non  trasmodino
mai in un arbitrio. Nel caso di specie  non  essendo  previsto  alcun
criterio  di  regolazione  del  potere  derogatorio  attribuito  alle
autorita' statali in sede di revoca dei provvedimenti autorizzatori o
concessori  in  parola,  tale  potere  risulta  rimesso  all'arbitrio
dell'autorita' procedente, in spregio ai principi di legalita'  e  di
buon andamento di cui all'art. 97 Cost., i quali, "quasi in  endiadi"
(decisione n. 333 del 1993) costituiscono il "vero cardine della vita
amministrativa in quanto condizione dello svolgimento ordinato  della
vita sociale". (decisione n. 123 del 1968) 
    Come, infatti,  autorevolmente  ha  rilevato  codesta  Corte  "il
principio di legalita' e d'imparzialita' della azione amminsitrativa,
insieme al buon andamento, sono pur sempre  i  valori  costituzionali
supremi cui deve ispirarsi l'attivita' amministrativa" (decisione  n.
78 del 1966) 
    La  loro  violazione,   percio',   non   puo'   che   determinare
l'illegittimita' costituzionale della disposizione di  legge  statale
con essi in contrasto. 
Violazione dell'art. 117, comma l della Costituzione della Repubblica
Italiana 
    Da  ultimo  la  disposizione  oggetto  d'impugnazione  come  gia'
evidenziato opera in deroga ai criteri per il rilascio e  il  rinnovo
della concessione dei posteggi per l'esercizio del commercio su  aree
pubbliche e alle disposizioni transitorie  stabilite  nell'intesa  in
sede di Conferenza unificata, ai  sensi  dell'articolo  8,  comma  6,
della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall'articolo  70,  comma
5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n.  59  recante  attuazione
della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo  e  del  Consiglio
del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. 
    Tale deroga risulta, in tutta evidenza, in contrasto  con  l'art.
117, comma 1 della Costituzione della  Repubblica  italiana,  ove  e'
previsto che la potesta' legislativa  debba  essere  esercitata  "nel
rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario  e  dagli
obblighi internazionali", 
    In  assenza,  infatti,  di  alcun  criterio   regolamentare   che
perimetri tale potere derogatorio entro limiti  che  garantiscono  il
rispetto del fondamentale  canone  di  non  discriminazione  e  della
liberta'  di  concorrenza,  imposti  dai  trattati  comunitari  e  in
particolare nel  caso  di  specie  dalla  direttiva  2006/123/CE  del
Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 in materia di
mercati interni, il comma 1-ter dell'art. 52 del decreto  legislativo
22 gennaio 2004, n. 42 non puo' che ritenersi  in  contrasto  con  la
normativa di attuazione del diritto comunitario e per il suo  tramite
con quest'ultimo, con conseguente violazione dell'art.  117  comma  1
della Costituzione e sua illegittimita' costituzionale (decisioni nn.
271/2009 216/2010)